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Mimit, Fausta Bergamotto alle imprese: ‭«Un fronte comune per l’export, l’innovazione e il Made in Italy»

Redazione

   Sottosegretario Bergamotto, la portata e l’effetto dei dazi è ancora in evoluzione, ma al momento sembra non stia intaccando la crescita del nostro export. Possiamo essere fiduciosi per il prossimo futuro, o le condizioni di incertezza globale inducono a procedere passo dopo passo?

Secondo i dati diffusi dall’Istat sul commercio estero dell’Italia, nel primo trimestre del 2025, verso i soli Paesi EXTRA UE, l’Italia ha esportato beni per 76,3 miliardi di euro, registrando – rispetto al primo trimestre del 2024 – un incremento del +3,1%. Nello stesso periodo l’export italiano negli Stati Uniti è aumentato in misura ancor più considerevole, con un incremento pari all’11,8% rispetto all’anno precedente.

Questi dati mostrano che, nonostante un contesto globale complesso, le esportazioni italiane restano vitali, con risultati di eccellenza sia in mercati consolidati che in mercati emergenti, confermando la capacità delle imprese italiane, in particolare delle PMI, di innovare, adattarsi e competere a livello globale.

Certamente, preoccupano le prospettive del nuovo corso della politica commerciale internazionale, in cui la questione dei dazi, così come condotta dal Presidente Trump, rappresenta anzitutto uno strumento di geopolitica per riequilibrare la bilancia commerciale e anche per porre un freno alla globalizzazione “a trazione cinese” che ha caratterizzato gli ultimi decenni. Al di là di un approccio diplomatico che talvolta rompe gli schemi più tradizionali, ne va compreso e rispettato il legittimo disegno rivolto alla tutela dell’intesse nazionale.

Ma è un disegno che non possiamo condividere, nel quale non può esserci alcun vincitore, dannoso per le imprese e per i consumatori e che rischia di ridurre drasticamente l’interscambio mondiale, colpendo tutte le grandi economie, a partire proprio da quella statunitense.

Lei chiede se la strada possa essere quella di procedere passo a passo: sì, se questo significa intessere un ragionato dialogo con l’altra sponda dell’Oceano, che non ceda a logiche di ritorsioni e scongiuri guerre commerciali. No, se questo si traduce in una politica attendista.

La reazione, una reazione costruttiva, è necessaria e deve volgere in occasione la complessità del momento. È una reazione che, al di là dell’importante ruolo di facilitatore che sta giocando la nostra Nazione, deve partire anzitutto dall’Unione europea, per costruire, fuori dai confini, una linea unita di risposta basata sul dialogo con gli USA e sull’apertura a nuovi mercati; ma che deve rivolgersi anche all’interno dei confini, abbattendo quelle barriere non tariffarie fatte da ostacoli normativi e amministrativi che lasciano ancora incompiuto il mercato unico.

Rispetto all’export, la cooperazione internazionale può essere uno volano strategico. In una sua recente missione in Kenya è stata rafforzata la cooperazione bilaterale con quel Paese in settori quali l’intelligenza artificiale, l’innovazione tecnologica e la transizione digitale. Sono questi gli ambiti nei quali ci sono i nostri maggiori margini di crescita con i paesi emergenti?

L’intelligenza artificiale, l’innovazione tecnologica e la transizione digitale sono settori trasversali che offrono ampi margini di crescita nei Paesi africani. Ad esempio, l’IA trova applicazioni pratiche in settori chiave come l’agricoltura di precisione, la sanità a distanza, la gestione delle risorse idriche e il monitoraggio ambientale. In Africa ci sono giovani talenti e startup innovative, sebbene permangano sfide legate a infrastrutture e accesso ai dati. È quindi auspicabile realizzare collaborazioni internazionali finalizzate al trasferimento tecnologico e alla formazione, aprendo così nuove opportunità di sviluppo e crescita sostenibile nel continente africano.

Dalla mia recente missione in Kenya ho tratto conferma delle grandi potenzialità che offre il contenente africano ma anche della necessità, globalmente strategica, di colmare il gap digitale: l’Africa, pur ospitando il 17% della popolazione mondiale, rappresenta solo l’1% della capacità globale dei data center. Solo il 5% dei data scientist africani ha oggi accesso alle risorse computazionali necessarie per sviluppare soluzioni basate su intelligenza artificiale. Di qui l’importanza e l’urgenza di iniziative per il partenariato internazionale, come l’AI HUB for Sustainable Development.

Può spiegare cos’è l’AI Hub for Sustainable Development, inaugurato il 20 giugno a Roma, e quali opportunità può creare per le nostre aziende? In che modo si integra con il Piano Mattei?

Si tratta di un progetto, promosso anche nel corso della presidenza italiana del G7, con il quale si mira a rafforzare gli ecosistemi locali di IA all’interno dei Paesi Africani in settori chiave come agricoltura, sanità, infrastrutture, istruzione, formazione, acqua ed energia e ad accelerare l’innovazione e i partenariati nel settore privato.

Codisegnato dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy e da UNDP, l’Organizzazione internazionale per l’attuazione del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, l’AI Hub fa parte del Piano Mattei per l’Africa e riflette gli obiettivi della strategia della Commissione Europea Global Gateway e di quella dell’Unione Africana sull’Intelligenza Artificiale. Collaborando con 14 paesi africani prioritari, l’AI Hub si focalizza su settori chiave per rafforzare le fondamenta dell’intelligenza artificiale – green compute, dati, competenze e ambienti abilitanti – al fine di stimolare la crescita attraverso il settore privato, ed in partnership con l’Italia, l’Africa, l’Unione Europea e i Paesi del G7. Entro il 2028, l’Hub mira a: favorire fino 10 investimenti esterni che creino filiere strategiche per investimenti a lungo termine; sostenere fino a 500.000 start-up africane; facilitare tra i 30 e i 50 partenariati ad alto impatto.

L’IA Hub vuole, quindi, essere un ponte tra le Big Tech europee e l’innovazione del Sud del mondo e risponde a pieno titolo alla nostra idea di sviluppo inclusivo, che, con il piano Mattei ci vede pionieri nei Paesi africani per la promozione di nuovo modello di cooperazione inclusivo, sostenibile e tale da colmare i divari digitali nelle economie del Sud del mondo.

Il settore farmaceutico e biotech è tra quelli che vivono una fase particolarmente espansiva nell’export. Quali sono le sfide e insidie principali che deve affrontare, o evitare, per continuare a crescere in modo strutturale?

L’industria farmaceutica e biotech rappresenta un patrimonio per l’economia italiana e il benessere della popolazione. Solo per quanto riguarda la produzione di farmaci, la nostra Nazione è tra i primi produttori in Europa, con un valore della produzione di 56 miliardi di euro nel 2024 e una quota rilevantissima di produzione destinata all’export (54 miliardi di euro nel 2024), che conferma l’Italia come hub di riferimento nel panorama globale.

Oltre al valore economico, il settore si distingue per l’alto livello di investimenti in Ricerca e Sviluppo e per un alto grado di innovazione e integrazione intersettoriale, con effetti virtuosi per la competitività complessiva.

Non ultimo, il settore è fondamentale anche per la sicurezza nazionale, specie in un contesto di equilibri geopolitici globali in evoluzione, come la pandemia ci ha insegnato.

Nonostante l’eccellenza che è in grado di esprimere, il settore deve affrontare le sfide della competizione globale; dell’implementazione delle tecnologie emergenti e di soluzioni sostenibili; delle trasformazioni di un sistema sanitario nazionale, che deve rispondere alle nuove esigenze della popolazione e ottimizzare le risorse disponibili.

Tutto questo richiede una strategia complessa, che assicuri il coordinamento tra il sistema sanitario e quello industriale.

Per questo abbiamo, tra l’altro, istituito presso il Ministero delle imprese e del made in Italy, in collaborazione con il ministero della Salute, un Tavolo dedicato al farmaceutico e al biomedicale, volto a garantire cooperazione tra imprese e istituzioni competenti e ad individuare soluzioni condivise e in grado di favorire gli investimenti necessari a preservare la competitività. E per questo il settore è raggiunto da importanti misure di incentivo, come i contratti di sviluppo per i grandi investimenti produttivi e gli incentivi per la ricerca e lo sviluppo per quanto riguarda il Ministero delle imprese e del made in Italy.

L’azione, però, non deve svolgersi soltanto al livello nazionale.

Il tema va affrontato anzitutto nel contesto europeo, da un lato risolvendo l’iperegolamentazione che frena la crescita, dall’altro promuovendo azioni e strategie comuni. Su entrambi i fronti il Governo è impegnato, attraverso, una posizione di revisione dei provvedimenti che hanno un impatto diretto sul sistema, ma anche la promozione di “Alleanze” tra i Paesi europei, produttive di proposte per strategie comuni, come l’Alleanza per la Chimica, che rappresenta il fondamento anche della filiera farmaceutica.

Non ultimo, occorre anche far fronte alle incognite della politica USA, la quale, peraltro, in questo settore, si muove in un contesto di peculiarità del mercato americano che vede alti prezzi dei farmaci per assetti principalmente interni, che però stanno determinando la presidenza americana a decisioni per la riduzione dei prezzi con possibili riverberi Oltreoceano.

Ciò corrobora la convinzione della necessità sia di continuare un attivo dialogo con un partener che resta e resterà strategico sia della opportunità di ricercare anche nuove collaborazioni e nuovi mercati, come sta avvenendo attraverso la stipula di accordi strategici con gli Emirati Arabi, che includono anche farmaceutica e scienze della vita.

Ricerca e innovazione sono oggi più che mai indispensabili per crescere e competere a livello internazionale. Ritiene realizzabile la possibilità di conciliare questa necessità con il fatto che, storicamente, il nostro tessuto imprenditoriale è caratterizzato da una netta predominanza di Pmi e microimprese?

È certamente vero che le imprese, non di media dimensione, ma di dimensione piccola o piccolissima sono assolutamente preponderanti nel nostro sistema economico: su 4,4 milioni di imprese attive, le microimprese, con meno di 10 addetti, rappresentano oltre il 95% del totale. Viceversa, le grandi imprese, con oltre 250 addetti, rappresentano una frazione minima del totale delle aziende: meno dello 0,1%. Nonostante questo, le PMI italiane sono storicamente grandi innovatrici, anche in modo informale, grazie alla capacità intrinseca di adattarsi ai cambiamenti più rapidamente rispetto alle grandi imprese.

In Italia c’è una grande domanda di innovazione che, indubbiamente, specie dinanzi alle sfide della doppia transizione verde e digitale – necessariamente da attraversare per rimanere competitivi – ha dei costi difficili da sostenere per le imprese meno strutturate. Questo spiega il gradimento di tanti strumenti di incentivo messi in campo dal Governo per le PMI che intendono innovare. Si pensi a strumenti come Smart&Start Italia o Transizione 4.0 o attivati nell’ambito del Fondo per la crescita sostenibile del Ministero delle imprese e del made in Italy. Anche strumenti per investimenti di maggiori dimensioni offrono occasioni importanti per la ricerca e lo sviluppo delle PMI, promuovendo la dimensione della “ricerca collaborativa”, che mette in relazione le imprese di minori dimensioni con grandi imprese o enti di ricerca e che rappresenta, nel disegno delle policy, sia nazionali che europee, uno dei driver della crescita.

Il Made in Italy e la sua percezione all’estero sta cambiando, sta evolvendo, nel corso degli ultimi anni?

Se parliamo di percezione da parte dei consumatori, direi, piuttosto, che si va consolidando uno storico prestigio del “brand Made in Italy”, che oggi può penetrare, anche grazie alle possibilità offerte dall’e-commerce, mercati internazionali in passato più difficili da raggiungere. È un brand percepito come unico al mondo: la sua trasversalità, che coinvolge ambiti estremamente diversi fra di loro, spaziando dall’agroalimentare alla moda, dalla tecnologia all’oggettistica e all’arredo, testimonia come esso racchiuda molto più dell’eccellenza delle sue produzioni, esprimendo una serie di valori, quell’italian style che tutto il mondo ci ammira.

Se, invece, guardiamo al Made in Italy come sistema economico, l’Italia si è dimostrata un modello virtuoso cui ispirarsi, dimostrando una capacità di resilienza, nelle recenti crisi, maggiore di molti competitor europei, per le caratteristiche proprie del sistema di produzione, fortemente radicato sul territorio e per sua natura flessibile e in grado di (re)inventare i prodotti. Certamente il Governo sta lavorando e ha lavorato fin dall’inizio del suo mandato per valorizzare le straordinarie potenzialità del Made in Italy, a partire dall’adozione di un quadro normativo – la prima legge quadro per il Made in Italy – operante a 360 gradi per promuovere, sostenere, tramandare e garantire dalle contraffazioni le nostre eccellenze, ma il merito è prima di tutto di quella capacità imprenditoriale tutta italiana che deve renderci orgogliosi.

Fabrizio Di Benedetto

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